Sito di Giuseppina Soricelli

domenica 29 aprile 2012

EDGAR MORIN

Edgard Morin, una delle personalità più intelligenti e sensibili del mondo intellettuale francese, ha pubblicato il suo ultimo lavoro “La Voie”, la via. Anziano resistente, ex communista, ora sociologo e filosofo, traccia una constatazione angosciante della nostra epoca cercando tuttavia di aprire qualche pista di “speranza” per l’avvenire.

"Il presente è incerto, pieno di angosce, e il futuro, se proiettato nel corso attuale del divenire del pianeta, un disastro annunciato. Ci troviamo di fronte a una crisi globale a doppio senso: crisi delle civilizzazioni tradizionali sotto il colpo dello sviluppo e della globalizzazione (la cosiddetta occidentalizzazione) e crisi della nostra civilizzazione occidentale, produttrice di questo divenire accelerato, in cui la scienza e la tecnica non hanno più alcun controllo e il profitto è assunto a maître di ogni azione e pensiero. Il nuovo dio è diventato il capitalismo finanziario, generato dal fanatismo religioso risvegliatosi dopo la morte del totalitarismo comunista: questa prospettiva non può che condurci, partendo dal dato presente, alla conclusione che il futuro sarà assolutamente catastrofico. Ciò che si è perduto è il credere nel progresso come via storica, non ci facciamo più cullare dall’illusione della possibilità di un avvenire positivo. Fino a quando il presente sarà carico di ansia e terrore, angoscia, ci rifugeremo nel passato, spiega Morin, nell’identità, nella religione. È a partire da questa constatazione che si capisce anche questo risveglio delle religioni. Una parte delle nuove generazioni si converte all’integrismo religioso; questo si può ben vedere ora in molti paesi arabo-musulmani.

La situazione attuale è aggravata anche dalla constatazione del fatto che esiste un grande vuoto di pensiero: le vecchie generazioni hanno creduto alla rivoluzione, al comunismo, alla società detta industriale, alla prosperità, alla fine della crisi. C’erano la speranza, le rivoluzioni, ed ora queste speranze sono distrutte. C’è bisogno di nuovi pensatori, e che le coscienze vengano provocate. Hölderlin diceva “la dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”. Forse il momento è arrivato, sempre più gravi e urgenti le questioni che ci interrogano e che esigono una presa di posizione e un’azione. L’improbabile, quello che secondo il filosofo, è la sola possibilità di risvegliare le coscienze e rendere il probabile non-probabile, è la vitalità della società civile, una creatività portatrice d’avvenire. Le idee sono dappertutto, bisogna mettersi all’opera".

Filosofo e antropologo, direttore di ricerca emerito presso il CNRS - Centre Nationale De La Recherche Scientifique e Presidente del Consiglio Scientifico dell’Istituto di Scienze della Comunicazione, il 3 aprile scorso è tornato in libreria, a 91 anni, con il suo nuovo saggio, La via - Per l’avvenire dell’umanità; da L’industria culturale: saggio sulla cultura di massa edito in Italia nel 1963, ha pubblicato decine di saggi sulla natura e l’identità umana, sul metodo e l’etica
Nel nuovo libro La Via, Edgar Morin, esordisce con una considerazione fulminante: “ci vuole tanto tempo per diventare giovani e basta un attimo per diventare vecchi”.

Chi si fosse perso l’incontro al Piccolo Teatro può riascoltare Edgar Morin sul sito della Rai, visto che è stato intervistato da Fabio Fazio alla trasmissione Che tempo che fa sabato 22 aprile.


venerdì 27 aprile 2012

PSICOLOGIA DELL’ARTE


L’arte è accusa, espressione, passione (GRASS).
Il pensiero creativo nelle arti
Artisti e poeti elaborano le loro opere attraverso un processo analogo a quelle necessario agli scienziati. Ai soggetti occorre un certo periodo di tempo per isolare un tema, che dà all’opera un orientamento finalistico (fase corrispondente alla preparazione e all’incubazione).
In molti casi il tema si presenta all’improvviso, accompagnato da una certa emozione (fase simile all’illuminazione). La scelta dell’esecuzione dell’opera d’arte o del linguaggio adatto all’opera scritta corrisponde alla fase della verifica.
Le differenze principali fra artista e scienziato vanno ricercate soprattutto nella diversità dei compiti scelti. Il risultato finale, per lo scienziato, è una conclusione chiaramente formulata, che comunica un’informazione verificabile da parte degli altri scienziati; per l’artista è una creazione che può essere apprezzata, ma non provata. Pochissimi individui (come Leonardo da Vinci) riescono ad eccellere in entrambi i settori.


Psicologia dell’arte
L’arte e l’espressione estetica sono state frequentemente analizzate dalla psicologia scientifica, che si è proposta di analizzare i fenomeni e le produzioni artistiche: i meccanismi percettivi (soprattutto visivi) e motori; i processi cognitivi (immaginazione e fantasia, creatività, linguaggio, memoria, soluzione dei problemi; interpretazione dell’opera da parte del fruitore); la personalità artistica; le diverse fasi della produzione artistica; la psicopatologia dell’arte, con particolare riferimento alle arti figurative, utilizzando tecniche sperimentali e metodi clinici ed effettuando studi comparativi.


Psicofisica dell’arte
Tra i primi studiosi ricordiamo Fechner, il quale distinse l’estetica dall’alto (propria dei filosofi) dall’estetica dal basso, che esamina le componenti del piacevole. Egli ricorse a tre metodi psicofisici:
- il metodo della scelta, che consisteva nel chiedere al soggetto dell’indagine di indicare l’oggetto che riteneva più gradevole fra quelli proposti;
- il metodo della riproduzione, con cui chiedeva al soggetto di modificare l’oggetto proposto, in modo che diventasse più piacevole;
- il metodo dell’applicazione, con cui occorreva esaminare una serie di oggetti scelti da un ipotetico committente e risalire da essi alla sua personalità, ai suoi gusti e alle sue preferenze.
Numerose ricerche sono state condotte da altri psicologi sulle preferenze per le linee, per le forme geometriche (sono preferite le forme simmetriche; per i colori (il rosso e il blu).
Secondo Eysenck la misura del piacere estetico deriva dal loro ordine e dalla loro complessità.
Secondo Barthes il discorso artistico attua una traduzione dal campo della natura, dal quotidiano e dal reale per proiettarsi nell’ambito della cultura. L’arte diviene come una cerniera tra natura e cultura, in uno spazio aculturale, che supera entrambe e produce un nuovo senso.


La psicologia della Gestalt
La psicologia della Gestalt ha analizzato i problemi percettivi ed ha definito il campo fenomenico non come un ammasso caotico di stimoli disordinati, ma come insiemi ordinati e dotati di significato, che tendono all’equilibrio. Strutture squilibrate tendono ad essere sostituite da strutture più stabili: la percezione tende verso una sempre maggior armonia e stabilità (legge della buona forma). Le “buone forme” sono quelle più soddisfacenti nella produzione artistica: “la percezione è artistica” (Koffka).
Arnheim ha effettuato numerosi studi sulla psicologia della visione e sulle espressioni artistiche, considerate delle forme (gestalten). Secondo Arnheim la produzione artistica nasce dall’intuizione, diversa dalla cognizione, che plasma tutte le informazioni ricevute dall’esterno, le conoscenze precedenti, trasformandole in un atto creativo dotato di significato. Le forme artistiche non si riducono a quelle semplici, regolari e simmetriche, ma possono esprimersi anche attraverso lo squilibrio. Sia l’equilibrio che lo squilibrio sono necessari in campo artistico.
Egli ha analizzato l’opera Guernica di Picasso e sostiene che l’arte si fonda sulla capacità di esprimere, attraverso immagini, sentimenti, idee, situazioni, concettualmente indefinite e generali.

Il contributo della psicoanalisi
La psicoanalisi considera l’espressione artistica come un fenomeno proiettivo e interpreta il materiale allo stesso modo in cui indaga sui sogni o sui miti, ricorrendo alla libera associazione. L’arte è una fonte di soddisfazione sostitutiva, che risponde tanto al principio del piacere quanto a quello della realtà: i contenuti rimossi (pensieri, desideri e sentimenti) emergono e trovano, inconsapevolmente, una temporanea soddisfazione.
Come il sogno, l’arte rappresenta una soddisfazione del desiderio, una soddisfazione simbolica, sostitutiva, per sottrarsi alla sofferenza operando un compromesso tra desiderio e realtà. Essa ci offre la libertà interiore per godere, da adulti, senza inibizioni personali o sociali, le pulsioni istintive originarie che ci sono state negate nell’infanzia e di esprimere tutte le infinite potenzialità inconsce che non riusciamo a realizzare nella vita quotidiana.
L’arte rappresenta una sfida alla realtà corrente, richiama una logica di soddisfazione contrapposta a una logica di repressione. Secondo Freud “l’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono rimaste per così dire vive le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva… L’artista è, originariamente un uomo che si distoglie dalla realtà giacché non può adattarsi a quella rinuncia dell’appagamento delle pulsioni che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita di fantasia. Egli trova però la via per ritornare dal mondo della fantasia nella realtà in quanto, grazie a particolari attitudini, traduce le sue fantasie in una nuova specie di cose vere, che vengono accettate dagli uomini come preziose raffigurazioni della realtà. Così, in certo modo, egli diventa veramente l’eroe, il re, il creatore, il prediletto, ciò che egli bramava di divenire e questo senza percorrere la faticosa e tortuosa via della trasformazione effettiva del mondo esterno. L’arte per Freud costituisce una soddisfazione simbolica del desiderio, che costituisce un ponte tra la vita reale, che frustra i desideri e il mondo fantastico dell’illusione, che li appaga.
Secondo Mannoni l’arte rende possibile il ritorno di ciò che è stato rimosso sotto forma negata. Affinché si possa parlare di manifestazione artistica, occorre attribuire l’espressione artistica al mondo dell’immaginario, ossia considerarla una finzione e negare la realtà.
Gombrich, distanziandosi dalla concezione psicoanalitica che tende a ridurre la forma artistica a semplice involucro dei contenuti inconsci, privilegia la forma sul contenuto, sostenendo che solo i contenuti inconsci che trovano adeguata espressione in strutture formali diventano comunicabili.
La produzione artistica non è un’interrogazione sul mondo, ma ci presenta il mondo. Secondo Winnicott l’arte e la creatività dell’uomo si situano in uno spazio transizionale, nella zona di transizione, di passaggio tra mondo esterno e mondo interno e costituiscono uno strumento che interviene su questo spazio materializzato. Il prodotto artistico favorisce il processo di autonomia nel soggetto, il quale riconosce la sua opera come una realtà oggettiva da rielaborare. La rappresentazione grafica permette di stabilire una mediazione fra mondo esterno e mondo interno e consente l’espressione del simbolico che non può essere comunicata ricorrendo esclusivamente al linguaggio.


L’interpretazione
La produzione artistica è un oggetto di studio complesso, che presenta più angolature e può essere considerato da diverse prospettive; inoltre deve essere collocata storicamente, valutata in relazione al particolare contesto sociale, situata nella cultura che lo ha prodotto; infine deve essere considerata dal punto di vista storico, stilistico, formale, tecnico ed estetico. L’interpretazione psicologica è una chiave di lettura che deve essere integrata con altre possibili interpretazioni, per metterne in luce tutte le variabili.
Secondo Ricoeur il linguaggio è equivoco, ossia possiede un duplice senso.
Secondo R. Jacobson Come ogni sistema di segni, l’arte…appartiene alla sfera pubblica… Il segno artistico si offre, è qui per qualcuno, … diviene un messaggio. In quanto tale suscita una lettura, un’interpretazione.
Secondo Althusser l’interpretazione trasforma il testo offrendogli un senso nuovo, cogliendo il non-detto del testo, ciò che è rimasto celato, per trasformarlo in detto, così come l’inconscio appare attraverso la lettura del conscio.
Secondo Charles Morris l’arte è un linguaggio e l’opera d’arte è un complesso di segni, che designano dei valori. L’artista si serve di un medium a cui attribuisce il valore di un’esperienza significante; l’interprete è colui che percepisce tale valore.

Arte e psicopatologia
Lavoriamo nel buio, facciamo quello che possiamo, diamo quello che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione, e la nostra passione il nostro compito. Il resto è la follia dell’arte (H. JAMES).
Alcuni studiosi hanno evidenziato il rapporto esistente fra l’arte, la creatività e la psicopatologia. Alcuni artisti tendono a prediligere contenuti autobiografici trasformandoli in prodotti creativi, generalizzano le proprie esperienze trasformandole in un messaggio per un pubblico più vasto: i temi che formano il contenuto dei prodotti artistici hanno carattere largamente autobiografico e possono riflettere i loro conflitti irrisolti. Molte persone creative rivelano caratteristiche immature: notevole immaturità affettiva, dipendenza dagli altri; sfida delle convenzioni; sentimento di onnipotenza; ingenuità, disordini del pensiero.
Tra gli artisti che presentavano uno squilibrio psichico ricordiamo Antonio Ligabue e Vincent Van Gogh.
Merleau-Ponty, interpretando le opere di Cézanne, ricerca la relazione tra vita e creazione artistica: la malattia mentale di Cézanne non è un destino, ma una possibilità dell’esistenza umana.
Secondo alcuni studiosi in molti artisti è presente una personalità borderline, intermedia fra la personalità nevrotica e quella psicotica.
Secondo Jung l’opera d’arte è l’indicazione di nuovi modi di adattamento dell’Io (come il sogno). Essa però non deriva più dall’inconscio, ma richiede un’azione intenzionale della coscienza. Pur nel suo carattere visionario, l’opera artistica deve essere decifrata nella sua organicità e nel suo carattere simbolico, non per risalire, in modo riduzionistico, alla psiche dell’autore o ai suoi eventuali disturbi.


Il processo creativo artistico per Jung avviene in due modi:


· nella forma psicologica il contenuto del prodotto creativo è attinto nella zona cosciente (esperienza, rapporto con l’amore, la famiglia, l’ambiente, la società ). Questa forma creativa non trascende i limiti dell’intellegibilità psicologica ed è sottoposta a un fine diretto, cosciente e intenzionale.

Nella forma visionaria il contenuto non nasce dal vissuto precedente, ma riproduce esperienze arcaiche dell’inconscio collettivo (archetipi ed esperienze demoniache e grottesche). La persona che crea è in balia del contenuto che affiora e si trova in una situazione passiva: “il contenuto e la forma escono già fusi nell’opera”. La grande opera d’arte non si riduce al risultato dell’esperienza o di normali processi razionali, ma anche di processi arcaici.

PER SAPERNE DI PIÙ
R. ARNHEIM – Arte e percezione visiva, Feltrinelli Milano 1971.
R. ARNHEIM – Verso una psicologia dell’arte, Einaudi Torino 1969.
J.CHASSEGUET-SMIRGEL – Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Cortina Milano 1989.
Fairbairn W.R.D., Studi psicoanalitici sulla personalità, Boringhieri, Torino, 1970.
R. FRANCES – Psicologia dell’estetica, P. U. F. 1971.
Freud S., Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1995.
Freud S., Psicoanalisi dell’arte e della letteratura, Newton Roma 1993.
Freud S., Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Newton Roma 1977.
FROMM E., Il linguaggio dimenticato, Bompiani Milano 1995.
E. H. GOMBRICH – Freud e la psicologia dell’arte, Einaudi Torino 1967.
Koffka K., Principi di psicologia della forma, Boringhieri, Torino, 1970.
E. KRIS – Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi Torino 1967.

venerdì 30 marzo 2012

PENSIERI DI MARIA MONTESSORI


MARIA MONTESSORI
 “La scuola è quell’esilio in cui l’adulto tiene il bambino fin quando è capace di vivere nel mondo degli adulti senza dar fastidio“.
“Ecco un principio essenziale: insegnare i dettagli significa portare confusione. Stabilire le relazioni tra le cose, significa portare conoscenza“.
“Se c’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal mondo del bambino, perché in lui si costruisce l’uomo“.

http://www.youtube.com/watch?v=MHffIX49ano
http://www.youtube.com/watch?v=MHffIX49ano

venerdì 16 marzo 2012

CONSIGLI UTILI PER LA PROVA DI PEDAGOGIA ESAME DI STATO

La seconda prova di pedagogia consiste nella somministrazione di quattro temi: ogni quesito è strutturato con una breve spiegazione dell'argomento da trattare e la traccia finale. Di questi quattro quesiti ne devono essere scelti due che devono essere svolti nello stesso trattato (più collegamenti ci sono e più il testo sarà buono). Un consiglio è quello di scegliere un autore e un argomento:es. Montessori e i Diritti umani; Montessori e il secolo del bambino/diritti dell'infanzia; Montessori ed il metodo didattico; Montessori ed il materiale di apprendimento; Montessori e la scuola come ambiente di apprendimento; Montessori e la pedagogia scientifica; Piaget e le fasi dello sviluppo del pensiero; Piaget ed il problema epistemologico della pedagogia; Piaget e il cognitivismo; Piaget e la scuola attuale.
La difficoltà di questa prova è quella di collegare due argomenti diversi in uno stesso testo, ma con un po' di studio, ragionamento e buon senso possiamo riuscirci.
In vista dell'esame è bene ripassare tutti gli argomenti affrontati durante l'ultimo anno. Possibilmente cercate di ottenere dal prof. il programma svolto in modo da avere sotto mano gli argomenti da studiare e ripassare. Cercate di farvi un immagine d'insieme della materia e createvi una sorta di argomenti che preferite, ma ricordate di non tralasciare gli altri, anzi vi consiglio di studiare sempre prima quelli che più vi sono ostili perché avrete bisogno di più tempo per questo lavoro. Sconsiglio, l'uso del Bignami per lo studio poiché gli argomenti sono trattati in modo troppo sintetico e quindi la memoria rischia di non riuscire a trattenere troppi argomenti. Cercate di tenervi aggiornati su quegli argomenti di cronaca e di attualità che possono essere utili per il vostro esame: ad esempio i fenomeni di sexting, bullismo, uso e abuso di sostanze alcoliche, farmaceutiche o psicotrope. Cercate di analizzare le notizie in modo critico senza farvi condizionare dal pensiero di chi scrive, tralasciate i giornali o gli articoli che trattano questi argomenti solo in modo sensazionalistico, non dovete fare gossip ma esaminare un fenomeno. Tralasciate anche quei programmi televisivi che trattano tali argomenti solo per odiens, poiché spesso gli ospiti non sono adeguatamente preparati su certi temi e parlano solo per guadagnarsi il gettone di presenza. Più argomenti conoscete e più sarete in grado di scrivere, se fate un esempio di attualità o cronaca cercate di non esagerare e attenti a non urtare la sensibilità di chi deve leggere lo scritto. Ricordate che è comunque un esame, non una dissertazione puramente personale.

Cosa è bene ripassare?
I principali autori svolti durante l'anno per quanto riguarda la storia della pedagogia.
Argomenti come: le fasi di vita e di crisi in particolare: la prima e la seconda infanzia, pre adolescenza e adolescenza, la giovane età e l'età adulta, la terza età; dal punto di vista biologico, fisico, psicologico e problematiche correlate,ad esempio: la prostituzione giovanile, il disagio fisico e mentale, l'handicap, l'uso e abuso di sostanze psicotrope, alcool, farmaci, la devianza giovanile, il disagio, il rapporto media e TV, giovani e internet, la sindrome del nido vuoto (età adulta), i diritti umani. Ovviamente non dovete inventarvi niente dovete ripassare solo ciò che avete fatto durante l'anno scolastico.
Avete 6 ore quindi non allarmatevi, inoltre vi sarà consentito l'utilizzo del vocabolario di italiano.
Consiglio di studiare sin da adesso in modo tale che poi dobbiate solo ripassare, inizialmente potrà sembrare inutile ma vi assicuro che il tempo speso per lo studio non sarà tempo perso, poiché tutto ciò che viene capito, rielaborato e fatto proprio (notate che non ho detto memorizzato, che è ben diverso dall'aver capito) viene naturalmente immesso nella memoria a lungo termine, la stessa che vi permette di non dover imparare a leggere o scrivere o camminare ogni giorno, quindi nel momento del ripasso risparmierete tempo, stress e ansia. Consiglio, inoltre di leggere, se presenti nel manuale i stesti scritti dagli autori studiati poiché avrete la possibilità di farvi una vostra idea personale e sarete in gradi di collegare argomenti e autori in modo semplice e fluido.
Prima della stesura del testo d'esame, consiglio di leggere più volte l'indicazione ed il testo ministeriale ed in base a questo fare una sorta di brain stroming, in modo da poter avere un idea degli argomenti/concetti che potrete trattare e di quelli, invece che potrete scartare sin dall'inizio.


LA SCUOLA REITERA L’ERRORE DI CARTESIO E DI PIAGET di Pasquale Picone

Il liceo delle Scienze Umane è la nuova denominazione dell’Istituto Magistrale, la scuola superiore dove, dal secondo dopoguerra del Novecento, c’è stato l’insegnamento specifico di psicologia generale e dello sviluppo. Un indirizzo di scuola superiore che in Italia ha contribuito, per oltre mezzo secolo, a formare i docenti della scuola di base: scuola dell’infanzia ed elementare.

Nel curricolo di psicologia del primo anno (quattro ore a settimana) le lezioni iniziali dell’anno scolastico sono dedicate all’unità didattica sugli organi di senso, propedeutica ai moduli di apprendimento sulla percezione. Ogni anno si ripete puntualmente la stessa scena. Quando il docente chiede qual è l’organo di senso del tatto, la stragrande maggioranza degli studenti, rispondono: Le mani, è ovvio!”.

Non è del tutto semplice per il docente, come potrebbe apparire, far assimilare in tempi brevi agli studenti la riflessione sul fatto che le qualità degli stimoli tattili sono rilevabili diffusamente su tutta la pelle, compreso, ad es., il cuoio capelluto o la pianta del piede. L’assimilazione, nonostante l’inequivocabilità, l’evidenza e l’mmediatezza dell’esperienza sensoriale, in quanto alla portata diretta di ogni singolo studente, richiede tempi lunghi. Come si spiega che i precedenti fattori non sono sufficienti a produrre in tempi brevi la stabilizzazione di una chiarificazione concettuale? Osservare l’inerzia di concetti, idee e rappresentazioni, è sempre molto istruttivo per chi si occupa di processi cognitivi e di insegnamento/apprendimento. Una simile difficoltà mette a nudo la reiterazione, l’inossidabilità, di rappresentazioni precoci che si oppongono pervicacemente alla revisione e al ri-orientamento, in questo specifico caso, della propria immagine corporea.

Ancora più problematica risulta l’assimilazione, e la stabilizzazione nel tempo, del concetto della pelle come vero e proprio organo di senso del tatto. Una simile problematicità si osserva lungo il corso dell’intero anno scolastico, attraverso momenti diversificati dell’attività didattica. Sia in relazione alle verifiche del profitto scolastico nei periodici colloqui individuali, sia nei dibattiti e nelle discussioni collettive sui processi psicologici. Anche nei successivi moduli di apprendimento, i quali richiamano direttamente o indirettamente problemi di percezione, il concetto errato delle mani come organo del tatto riaffiora di tanto in tanto. Testimoniando una certa inossidabilità ad aggiornarne la concettualizzazione.

Per l’osservatore di alcuni processi cognitivi della mente degli adolescenti, la prova del nove, del rifiuto delle mani a cedere il ruolo di organo del tatto, si ottiene al secondo anno. Durante le prime lezioni del nuovo anno scolastico, quando si vanno a richiamare i concetti sulla percezione, sui quali si è lavorato nel corso dell’intero anno scolastico precedente, il vecchio concetto delle mani-organo si riaffaccia, in alcuni studenti, con inesorabile puntualità.

Per i docenti è un’esperienza veramente impressionante, proveniente dal vivo del lavoro d’aula, dell’errore di Piaget segnalato a suo tempo da H. Gardner, lo studioso delle intelligenze multiple. Egli dice:

«Io sostengo che, quando ha affermato che i modi di conoscere più sofisticati del bambino più grande eliminano le sue forme precedenti di conoscenza del mondo, Piaget ha commesso un errore fondamentale. Forse ciò avviene nel caso degli esperti; ma ricerche condotte su studenti comuni rivelano una realtà drammaticamente diversa. Per lo più, le prime concezioni e i primi fraintendimenti dei bambini durano per tutta l’età scolare; e una volta che il giovane abbia abbandonato l’ambiente scolastico, queste prime visioni del mondo possono benissimo emergere (o riemergere) in tutta la loro vitalità. Lungi dall’essere state sradicate o trasformate, semplicemente hanno vissuto una vita sotterranea; al pari dei ricordi repressi dell’infanzia, si fanno avanti nelle situazioni in cui sembrano appropriate».

Gardner H. Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico. Milano, Feltrinelli, 1991, p.39.

Ora, per capire l’eziologia di un simile processo, bisogna analizzare l’origine precoce della rappresentazione delle mani-organo.

Basta recarsi in una qualsiasi aula di prima elementare ed osservarne le pareti. I cartelloni didattici riproducono l’insegnamento di alcuni principii di Comenio, filosofo ermetico e fondatore della pedagogia moderna. Nell’Orbis sensualium pictus, scritto nel 1653-54, Comenio illustrava le ragioni di associare sempre delle immagini concrete all’apprendimento della lettura e della scrittura di parole. Nelle aule della prima elementare in Italia, a fianco della parola “vista”, i cartelloni riproducono l’immagine degli occhi, all’olfatto corrisponde l’immagine del naso, e così via. Sino alla parola “tatto”, alla quale corrispondono le mani.

Tale rappresentazione precoce costituisce un imprinting che, se non corretta, aggiornata ed integrata, perdurerà tutta la vita. Distorcendo, di fatto, la mappa cognitiva dello schema corporeo in larghi strati della popolazione.

Tuttavia, questo primo resoconto sulla corretta concettualizzazione della pelle come organo di senso, non è sufficiente per descrivere la profondità e l’ampiezza della disfunzione di una rappresentazione che gioca un ruolo non trascurabile nell’elaborazione dell’immagine di sé e della vita di relazione, soprattutto nell’adolescenza. Quest’ultimo, inteso come periodo “costruttivo”, ma non certamente esaustivo, dei fondamenti dell’immagine di sé. E’ nell’esperienza, di chiunque rifletta, il prolungarsi di elementi adolescenziali nella vita adulta. La psicoanalisi ci ha documentato la sostanziale ricorsività, in stadi di sviluppo posteriori, dei processi specifici di fasi precedenti dell’evoluzione psichica.

Esistono altri due vertici di osservazione grazie ai quali si può rendere più completa la rappresentazione del ruolo giocato dalla pelle nella vita umana. E coglierne altresì la dissonanza cognitiva come esito di un processo cumulativo ingenerato, inizialmente dalla buona intenzione della semplificazione, da quei cartelloni didattici di prima elementare, nel corso dei diversi stadi dello sviluppo della personalità.

Negli studi sul fenomeno dell’attaccamento tra madre e bambino, condotti da Harlow e Bowlby ed in quelli, leggibili in diretta continuità con i precedenti, sullo sviluppo affettivo di Winnicott, Spitz ed altri, il ruolo della pelle nell’allattamento, nell’abbraccio e nelle interazioni di accudimento, risulta cruciale. Una madre depressa o demotivata (pensiamo ai casi di bambini frutto di gravidanze non desiderate) trasmetterà il suo stato emotivo attraverso un insufficiente contatto epidermico. Il bambino che non riceve contatti cutanei si ammala più facilmente e, nei casi più gravi, può sviluppare una depressione anaclitica. Alcune esperienze hanno dimostrato che bambini prematuri sottoposti a massaggi e carezze, riprendono ed intensificano la crescita, rispetto ad altri che non ricevono gli stessi stimoli cutanei. Da questo complesso di ricerche si ricava una rappresentazione della pelle come organo non solo del tatto ma anche di trasmissione delle emozioni.

Un terzo stadio della rappresentazione della pelle è ancora più complesso e profondo, poiché implica una funzione simbolica inerente alla vita inconscia. Una rappresentazione che giunge a configurare la pelle, per così dire, come organo della socializzazione. Questo stadio lo si osserva a proposito dei gruppi di adolescenti.

«A differenza delle “compagnie”, tipiche del periodo della latenza, questi gruppi sono tenuti insieme più che dalle affinità, dall’eterogeneità dei membri. Sono gruppi, cioè, che permettono una molteplicità di identificazioni. Ogni membro del gruppo è vissuto come una parte del Sé e l’intero gruppo come un contenitore di tutte le parti scisse. Il gruppo diventa, simbolicamente, l’equivalente psichico della pelle» (Canestrari R., Psicologia generale e dello sviluppo, Bologna, Clueb, 1984, p.591).

L’interesse di questa configurazione riveste un particolare interesse per lo sviluppo del Sé che, nella concezione junghiana della psiche, rappresenta sia la personalità globale che il vero nucleo centrale della personalità stessa. Il Sé, insieme al processo di individuazione e alla funzione trascendente si posizionano come categorie portanti dell’intero contributo di C. G. Jung, il cui pensiero costituisce l’esito più recente della filosofia ermetica.

All’equivalente psichico della pelle, dove si integrano le parti scisse del Sé, si dovrebbero connettere anche le riflessioni di non pochi autori che vedono la condizione attuale dell’adolescenza caratterizzata da multiformi “mutilazioni del Sé”:

«Il narcisismo naturale è sempre meno contenuto dai limiti offerti dagli adulti. Anzi, vengono costantemente suggerite attese infinite e viene sminuito e ridotto lo spazio e il tempo dedicati alla costruzione del sé; allo stesso tempo però, il mondo mostra tutto intorno limiti terribili quali l’Aids, le guerre, la mancanza di lavoro e le nuove povertà, il disastro ambientale che sta provocando il progressivo inquinamento del pianeta e la distruzione dell’ecosistema eccetera.

La costruzione del sé, possibile prima del confronto con il reale, è un processo oggi più difficile. Aumentano le tensioni o verso fantasie onnipotenti ma irraggiungibili o, al contrario, in modo speculare, verso la rinuncia e lo stato di attesa, spesso depressiva.

C’è una situazione diffusa di perdita, che assume molte forme e mostra non solo una mutilazione negli scambi manifesti tra adulti e bambini o adolescenti, ma anche una limitazione dello spazio interno dei bambini o adolescenti stessi: una mutilazione del sé delle persone in crescita» (AA.VV., La scuola deve cambiare, Napoli, L’ancora, 2002, p.17).

C’è da aggiungere che anche i dati delle ricerche sulla psicosomatica dei disturbi della pelle, nelle teorie dell’intelligenza emotiva di Goleman e altri, la pelle si presenta come l’organo primario delle emozioni nella vita infantile. Trovando continuità e conferma nella sessualità e nelle dinamiche affettive delle fasi successive della vita.

Nel suo bellissimo libro su L’errore di Cartesio, A. Damasco (Milano, Adelphi, 1995) presenta delle prove autorevoli e molto persuasive, di neurologia clinica e sperimentale, a favore del ruolo fondamentale giocato dalle emozioni, dagli affetti e dai sentimenti per i processi cognitivi.

Una rappresentazione collettiva più oggettiva dell’organo del tatto, che è contemporaneamente organo dei transfert emozionali nelle fasi precoci dello sviluppo ontogenetico, del confine con la realtà esterna e di una funzione simbolica, metabolica della socializzazione nell’adolescenza, contribuirebbe a farci uscire di più dal secolare errore di Cartesio della separazione tra il cogito dei processi cognitivi e le emozioni provenienti dal corpo.

Infine, la riflessione sulla vicenda della pelle, olisticamente concepita nella sua triplice scansione evolutiva di organo del tatto, organo delle emozioni e rappresentante simbolico di organo contenitore della socialità nell’adolescenza, fa riflettere sulle difficoltà e le lentezze storiche della scuola, che vanno esse stesse comprese in profondità. Lentezza nell’aggiornare la strumentazione concettuale, onde fornire alle nuove generazioni una rappresentazione, in questo caso della realtà umana, rivista alla luce dei risultati della ricerca e della conoscenza scientifica.

Tuttavia, tali difficoltà e lentezze, anziché vederle solo attraverso il riflesso condizionato della responsabilità degli operatori che erogano il servizio formativo (von Foerster: «bisogna comprendere ciò che si vede, altrimenti non lo si vede»), va colto nella pressione inconscia (quindi: tanto più efficace quanto più profonda, nascosta e difficilmente evidenziabile) di induzioni, inoculazioni e vere e proprie identificazioni proiettive negative di una funzione della scuola definita da una delega del controllo, di una mera ripetizione e trasmissione di conoscenze datate. Una pressione proveniente in gran parte da una inadeguata e disfunzionale struttura storica, tuttora vigente, dei processi di formazione della professionalità docente.

Forse la scuola, provvedendo a sostituire l’immagine del corpo umano intero a quella delle mani, quando trasmette ai bambini di 5/6 anni la rappresentazione del tatto, sicuramente non risolverebbe, con un intervento così semplice, la disfunzionalità di rappresentazioni la cui profondità ed estensione, come si è visto, è alimentata da contenuti teorici prodotti da autori quali Cartesio e Piaget. Rispetto ai quali potrebbe anche scattare, come antidoto, l’aiuto della presa di coscienza degli idòla theatri («molti principi e assiomi delle scienze che si sono affermati per tradizione, fede cieca e trascuratezza») di baconiana memoria. Sicuramente, però, quel semplice gesto della scuola, potrebbe documentare una mentalità di ricerca, tesa a prendere coscienza degli errori, delle semplificazioni parcellizzanti e degli scotomi che generano dissonanze cognitive.

La mentalità di ricerca






















































LA PSICOLOGIA UMANISTA

Negli anni ’50 si diffuse negli Stati Uniti, forse sulla scia dell’influenza degli insegnamenti portati in quel continente da Alfred Adler negli anni ’20-‘30, una nuova corrente della psicologia, avente alla base un nuovo punto di partenza, quello dell’uomo al centro del processo, con tutto il suo potenziale positivo. All’epoca erano imperanti essenzialmente due approcci: la psicoanalisi e il comportamentismo, centrati sul modello pulsionale, il primo, e su quello sperimentale - meccanicistico, il secondo. Si profilava l’urgenza di costituire, in opposizione alle due correnti menzionate, una Terza Forza nella psicologia e si avvertiva dunque l’esigenza di guardare all’uomo e al suo comportamento non più come dettati solo da pulsioni e da meccanismi di stimolo/risposta alle sollecitazioni dell’ambiente, ma come animato da spinte all’autorealizzazione e all’espressione del suo pieno potenziale.

L’iniziatore di questo movimento, la cosiddetta psicologia umanistica, fu probabilmente Carl Rogers, il quale pose l’accento sul mettere al centro del processo di cambiamento il cliente: non più paziente dunque, proprio per valorizzarne le capacità espressive e di autoguarigione, in un clima positivo di accettazione incondizionata, con una terapia non direttiva fondata sull’empatia. Cambiò di conseguenza anche il setting; non più il tavolo del medico né il distaccato lettino psicoanalitico, bensì la posizione vis-à-vis, di confronto tra due individualità con un pari livello di umanità, pur se con ruoli differenti in quel momento: il terapeuta/agevolatore e il paziente/cliente. Un altro grande esponente della corrente umanistica fu Fritz Perls, cui si attribuisce la paternità della Psicoterapia della Gestalt, il quale pose l’accento anche sul tema del contatto e di una gestione sapiente dei confini, come forme di facilitazione alla consapevolezza e al cambiamento. Inoltre, introdusse e mise in pratica il concetto di simpatia (complementare, e non opposto, a quello di empatia), dando luogo ad una maggiore partecipazione, autenticità e talvolta direttività nel setting terapeutico. Altri grandi esponenti della psicologia umanistica possono essere considerati Moreno, Lowen, Fromm, i quali diedero l’avvio a diversi, importanti approcci.

Tuttavia, la personalità più rilevante in questo contesto, a mio avviso, è stata senz’altro Abraham Maslow, il quale non praticò primariamente la psicoterapia, ma si dedicò essenzialmente a studi e ricerche antropologiche e sul comportamento dei primati, nonché all’insegnamento accademico, e intuì la struttura gerarchica delle motivazioni nell’essere umano, individuando l’origine della psicopatologia nella mancata e reiterata non soddisfazione dei bisogni emergenti durante il corso dello sviluppo. Pertanto, aprì anche alla clinica una possibilità di lettura più ampia del disagio umano, visto non più con atteggiamento oggettivistico o limitato all’interpretazione del sintomo, ma collocando altresì quest’ultimo nella storia evolutiva dell’individuo in ordine al rapporto con i propri bisogni. Egli fu il primo a parlare della psicopatologia della norma, quel disagio sperimentato dalle persone che hanno raggiunto un buon adattamento ma non riescono ad andare oltre. Così come si può soffrire per non aver raggiunto l’adattamento alla società e ai ruoli, si può soffrire altrettanto, se non di più, quando questa fase è stata raggiunta ma non si riesce ad accedere all’autorealizzazione, il che significa poter superare la logica, la morale e la vita convenzionali, per seguire le proprie aspirazioni e la realizzazione del proprio potenziale nascosto. A tale proposito, egli pose fra le ipotesi del nuovo punto di vista l’esistenza, in ogni essere umano, di una natura interiore essenziale, fondata biologicamente, intrinseca, che non muta.

Secondo Maslow, se consentiamo a questa natura interiore buona di governare la nostra vita, ci svilupperemo verso la salute, la fecondità e la felicità; ma se questo nucleo essenziale della persona viene negato o represso, allora la persona si ammala. Inoltre, poiché la natura interiore è debole, delicata e sottile, facilmente l’abitudine, la pressione culturale, gli atteggiamenti errati nei suoi confronti la sopraffanno. Ed essa verrà così repressa; ciononostante, premerà sempre per realizzarsi. Risulta allora fondamentale superare l’adattamento, in quanto esso, se posto come stile di vita della persona, contribuisce a reprimere sempre di più la natura interiore, impedendole di esprimere le sue potenzialità. Maslow, parlando di motivazioni, distingue tra motivazione carenziale e motivazione di accrescimento, intendendo con la prima quel movimento che tende a riempire i vuoti carenziali e con la seconda il movimento che tende all’accrescimento.

La motivazione di accrescimento riguarda soprattutto le persone sane, le quali hanno soddisfatto a sufficienza le proprie necessità fondamentali di sicurezza, appartenenza, amore, rispetto e stima di sé, e dunque risultano motivate primariamente da tendenze all’autorealizzazione. Le persone sane hanno una percezione della realtà superiore alla media, maggiore accettazione di sé, degli altri e della natura, maggiore spontaneità e autonomia, struttura del carattere più democratica, accentuata capacità creativa. I bisogni carenziali possono essere soddisfatti solo da altre persone; ciò implica una considerevole dipendenza dall’ambiente; all’opposto, gli individui che si autorealizzano sono assai meno dipendenti, assai più autonomi e autodiretti. Ben lungi dall’aver bisogno degli altri, le persone motivate dall’accrescimento possono in realtà sentirsene disturbate. In esse si trova normalmente autodisciplina, che non si trova nella media delle persone; per loro il dovere e il piacere sono la medesima cosa, così come il lavoro e il gioco, l’interesse per sé stessi e l’altruismo, l’individualismo e il disinteresse.

Al cuore della rinuncia all’autorealizzazione, secondo Maslow, è la difficoltà dell’essere umano motivato in modo carenziale di abbandonare i bisogni di sicurezza, appartenenza e identificazione, in nome dell’autorealizzazione; perciò, la psicopatologia della norma risulta essere una fissazione ad uno stadio in cui si preferisce rinunciare all’espressione di sé perché si pensa che farlo coinciderebbe con la perdita di sicurezze (economiche, affettive, ecc.). Il lavoro di Maslow ha esplicitato una concezione dell’essere umano in costante evoluzione, che può andare ben oltre la cosiddetta età evolutiva e l’adattamento. Egli avvertì l’urgenza di una psicologia che considerasse lo sviluppo umano al di là di quello convenzionale, incentrata sul cosmo anziché sui bisogni e sull’interesse umano, che oltrepassasse anche il bisogno dell’autorealizzazione, per accedere all’autotrascendenza, e che includesse nel suo paradigma anche la spiritualità e i portati delle tradizioni sapienziali di tutti i tempi e luoghi. Pose così le basi per la Quarta Forza della psicologia, la psicologia transpersonale, attualmente diffusa sia negli Stati Uniti che in Europa, in diverse correnti e orientamenti.

venerdì 17 febbraio 2012

Cosa significa pensare?


L'uomo pensa
 In una ricerca metodologica riguardo al pensare è fondamentale seguire un percorso corretto, consequenziale e che in primo luogo non inizi con una falsa partenza. La prima domanda da porsi è “cosa significa pensare?” la definizione basilare afferma che il pensiero è il nucleo centrale del trattamento delle informazioni che precede tutte le attività dell’organismo. Psicologi di diverse scuole di pensiero hanno ampliato questa definizione analizzando il pensiero con attitudini diverse, che hanno portato a un continuo sviluppo delle conoscenze riguardo l’argomento alcune teorie si pongono sullo stesso piano di altre, altre avendo alla propria base nozioni empiriche hanno superato determ9ionate concezioni in un processo dinamico ancora in atto. Il pensiero elabora i dati in entrata (input) in una serie complessa di procedimenti, che portano a una risposta in uscita (output).
Il pensiero si basa principalmente su schemi che sono un complesso organizzato di conoscenze su un determinato oggetto, che permettono al pensiero di stabilire che informazioni assumere e pianificare la raccolta di queste. La psicologia dei processi cognitivi ha avuto uno sviluppo assai rapido negli ultimi quaranta anni , questo perché nella prima metà del secolo gli psicologi hanno avuto la preoccupazione di essere obbiettivi, di badare a dati empirici osservabili e riscontrabili con certezza. In buona parte di queste tendenze furono dominate dalle teorie comportamentiste che appunto aspiravano a attenersi allo studio dei dati manifesti e visibili, degli input e degli output, tralasciando il pensiero stesso, puro, pensiero in quanto pensiero. La mente per loro era come una scatola vuota, priva di qualsiasi meccanismo al suo interno nella quale entravano stimoli e uscivano risposte. Nella seconda metà del secolo le teorie comportamentiste vennero superate dal cognitivismo che capì che ci si poteva tranquillamente occupare del pensiero senza smettere di essere rigorosamente scientifici. In quanto vennero sviluppati vari metodi indiretti per studiare il pensiero in ogni caso empirici. Per condurre gli esperimenti si chiese a soggetti sperimentali di risolvere determinati compiti cognitivi o risolvere determinati problemi pratici (problem solving) al fine di comprendere più a fondo il pensiero che vi sta alla base. Si arrivò così a studiare i biases, le euristiche cognitive, la flessibilità, la fantasia e la meccanicità e tutte le diverse particolarità tipiche del pensiero. Si differenziarono così tre principali forme di pensiero: il ragionamento, con il quale il pensiero è in relazione con l’oggetto e inferisce dati da esso, la fantasticheria, con il quale il pensiero prescinde dal oggetto e la formazione di concetti. Si costatò inoltre che il pensiero poteva essere anche convergente e divergente, produttivo o riproduttivo e aperto o chiuso. A cominciare dagli anni settanta gli psicologi cognitivi si occuparono del pensiero che da luogo alle decisioni, interessandosi così ai fattori psicologici che sposano il pensiero verso una determinata decisione, ma nonostante gli studi in laboratorio i cognitivisti non arrivarono mai a dati certi.
Le ricerche cognitivisti fondate sulla stimolazione del pensiero tramite diversi test, esperimenti e tecniche psicometriche andavano però a studiare solo il pensiero volontario,consapevole escludendo dalla propria ricerca il pensiero automatico, involontario e incosciente di cui tipico esempio è l’insight. L’insight venne studiato per la prima volta intorno agli anni venti grazie a un grande contributo da parte della gestalt e in particolare di Koholer e dei suoi studi a Tenerife. Il suo lavorò fu pionieristico in particolare sui metodi di osservazione con cui inferiva le procedure del pensiero. Le conclusioni delle sue ricerche sottolinearono che per risolvere un problema occorre visione d’insieme, fantasia, invettiva e flessibilità. Il pensiero quindi precede tutte le attività dell’organismo, ha ricadute sui comportamenti e sugli atteggiamenti e perciò è facilmente collegabile all’ apprendimento. Diverse teorie si svilupparono anche a riguardo di ciò,  nel 1930 Bandura trattò l’apprendimento sociale, per imitazione, si riaffermarono teorie comportamentiste, cognitivisti e per tradizione. Periodo in cui tutti i tipi di apprendimento di pensieri che vi stanno alla base sono molto attivi è l’infanzia. Piaget si dedicò a studiare il pensiero del bambino, producendo una gran mole di lavori empirici e pubblicazioni sull’argomento, per decenni si identificò la psicologia dell’età evolutiva con il suo lavoro. Nelle sue indagini piaget si servì del metodo clinico, un misto sapiente di test, osservazione e intervista per descrivere l’evoluzione tappa per tappa del pensiero dalla nascita all’adolescenza. Le sue teorie risentirono anche dell’influenza delle concezioni innatiste che studiando il pensiero ricercavano centri cognitivi del pensiero effettivamente e biologicamente presenti all’interno del cervello. In ogni modo per lo psicologo nello sviluppo del pensiero è decisiva l’autogenerazione, il fatto che il pensiero si costruisca da se nel rapporto individuo-ambiente. La mente nasce, emerge dal biologico, ed evolve a livello da i più semplici a i più elevati. Alla nascita il pensiero è già munito degli schemi che durante lo sviluppo cambiano, accomodano mantengono il sistema del pensiero stabile nei confronti dell’infinità di informazioni provenienti dall’esterno. Quindi seppur portiamo avanti una ricerca riguardo al pensiero è impossibile svincolarsi dall’ambente esterno nel quale l’individuo è inserito. Sostenitore della forte reciprocità ra pensiero e ambiente fu Vygotskij, in quanto lui considerava il pensiero strettamente legato con la vita concreta, la cultura e il tempo. Lo sviluppo cognitivo è una conseguenza del vivere in società. L’esperienza di relazione e la comunicazione  produce nel bambino la nascita della coscienza e del pensiero. Ciò si spiega perché nei rapporti sociali gli esseri umani utilizzano il linguaggio. Il bambino è immerso nelle dinamiche sociali e in un primo tempo impara a usare gli strumenti della relazione interpersonale, acquistando le funzioni interpsichiche. Successivamente gli strumenti relazioni vengono trasferiti all’interno e trasformati in meccanismi mentali. Da interpsichiche diventano funzioni intrapsichiche. Il linguaggio utilizzato per comunicare con gli altri nei rapporti inter e intra gruppo diviene voce interna e poi forma di pensiero. Alla luce delle conoscenze attuali è chiaro che Vygotskij sottovaluta il peso dell’evoluzione, ciò nonostante queste teorie hanno il merito di rischiare alla storicità del pensiero al fatto che questo si sviluppa e si esprime in contesti storico sociali definiti e non si può analizzare nel vuoto.

venerdì 13 gennaio 2012

ESSERE UN INSEGNANTE METACOGNITIVO

Essere tutto ciò, non equivale ad una definitiva "elezione" ad insegnante metacognitivo, perché ognuno di questi indicatori implica un divenire, un continuo "tendere verso…", ci ricorda la provvisorietà, l'incertezza, la fatica, ma anche la magia del nostro lavoro.

Essere (o diventare) un insegnante metacognitivo è una caratteristica (evoluzione) di ogni professionista che operi nel campo impegnativo, e al contempo gratificante, della formazione della personalità delle nuove generazioni.
Adottare strategie di Didattica Metacognitiva non significa soltanto sperimentare nuove tecniche didattiche, significa piuttosto mettere in questione, ogni giorno, la propria professionalità, allo scopo di migliorarla e renderla sempre più adeguata alle sempre più difficili domande che i nostri allievi ci pongono.
Quali sono le caratteristiche di un insegnante che voglia dichiararsi "metacognitivo"?
Conoscere la propria materia, per poterla mediare agli allievi.     Conoscere le altre materie, per poter ricercare i collegamenti necessari all'unitarietà del sapere.  Conoscere le teorie dell'apprendimento per poterle mettere in pratica.  Conoscere metodi di sperimentazione per attualizzare, nella pratica, le teorie. Conoscere elementi di docimologia: saper valutare vuol dire saper progettare.  Conoscere la didattica dell'errore, per saper valorizzare le differenze e saper risolvere problemi. Conoscere modalità di esplorazione e comprensione del contesto, per agire significativamente su di esso. Conoscere se stesso, per potenziare le proprie abilità: relazionali, cognitive, didattiche, …L'insegnante metacognitivo è un insegnante:  Riflessivo - Osservatore - Empatico -Autorevole - Organizzato-Che sa mettersi in relazione-Che sa mettersi in  dicussione-Che sa porsi come modello positivo-Che sa ispirare l'attività degli allievi.  Saper motivare all'apprendimento- Saper valorizzare le abilità, rinforzare l'autostima. - Saper progettare percorsi significativi di apprendimento.-Saper mediare contenuti e strategie-Saper facilitare l'apprendimento- Saper essere un modello di autonomia-Sapersi accorgere dei problemi-Sapersi sorprendere della scoperta. Ma soprattutto avere, come i nostri allievi, la curiosità di scoprire sempre nuovi saperi, diventare padroni della propria cultura e voler comprendere l'altrui, conoscersi e amare la conoscenza.

Il coaching


Il coaching è il processo attraverso il quale si aiutano individui e gruppi di persone a realizzare obiettivi che da soli non potrebbero raggiungere e a dare il meglio per produrre risultati in modo veloce ed efficace.
Il coach sostiene le loro scelte e offre gli strumenti per ricercare in sé stessi le risorse necessarie ad attuare precisi e mirati piani d’azione per il raggiungimento del successo.
Questo processo comporta l’espressione piena della forza delle persone, che vengono aiutate ad aggirare i propri limiti e le proprie barriere perché possano dare il meglio di sé, e vengono indotte a realizzare prestazioni più efficaci
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Il termine coach deriva dall’inglese “coche” che corrisponde al moderno “wagon” (carro) o “carriage” (carrozza), quindi allude all’idea di trasporto. Furono poi degli studenti universitari ad attribuire l’appellativo di Coach ai loro tutor migliori, proprio a sottolinearne il ruolo di supporto. Nel linguaggio sportivo la parola Coach indica infattil’allenatore con il duplice ruolo di “tecnico” esperto dello sport in questione ma anche motivatore, capace di infondere ai suoi atleti l’energia, l’entusiasmo e la carica necessari ad affrontare la sfida della gara.
Il coach è dunque un veicolo di cambiamento, di crescita: trasporta una o più persone da uno stato di partenza alla meta desiderata, (la vittoria nel caso sportivo, il raggiungimento di determinati obiettivi, come trovare lavoro, gestire efficacemente gli stati d’animo, relazionarsi con successo o acquisire nuove quote di mercato nel caso del coaching personale o aziendale) grazie alla definizione degli obiettivi e di un piano d’azione.
Un coach efficace quindi osserva il comportamento di una persona ed è in grado di fornirle guida e consigli per ottenere dei miglioramenti in situazioni e contesti specifici ed inoltre promuove lo sviluppo delle competenze comportamentali della persona attraverso un’accurata attività di osservazione e feedback.

LE EMOZIONI

A volte mi capita di sentire il parere di alcune persone che rifiutano la possibilità di imparare a gestire le proprie emozioni per “paura di diventare un robot privo di emozioni”! Questo è paradossale e molto lontano dal vero significato di gestione delle emozioni.
Dunque, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Fin dalla nascita, veniamo letteralmente “addestrati” (o educati se preferisci) alla ripetitività di alcune emozioni specifiche, che, nel tempo, diventano le nostre abitudini emozionali. Ci abituiamo alla calma e alla felicità, così come ci abituiamo alla rabbia o all’ansia.
Se da piccoli abbiamo vissuto con persone che ci hanno molto criticato, potremmo aver imparato a condannare o giudicare in maniera eccessiva; se abbiamo vissuto in un clima di paura, probabilmente abbiamo imparato ad essere apprensivi e ansiosi; e ancora chi ha vissuto in un ambiente molto rigido, ha potuto imparare a provare senso di colpa in seguito ad ogni errore.
I bambini imparano quello che vivono, come sostiene una meravigliosa poesia di D. Law Nolte..
Quello che spesso crediamo erroneamente è che le emozioni siano elementi che nascono insieme a noi. Ma non è affatto così. Nessun bambino nasce ansioso, teso o arrabbiato. Lo diventiamo, in seguito alle influenze delle persone che ci educano, all’interpretazione che diamo agli eventi, e sulla base delle nostre percezioni individuali.
Non esistono emozioni positive o negative in assoluto. Ogni emozione può essere produttiva e utile o dannosa, dipende dall’uso che ne facciamo. Facciamo un esempio: provare un po’ di paura prima di una performance è stimolante, aiuta a dare il massimo … ma se la paura diventa tanta, allora è come se fosse un terribile padrone che ci rende schiavi, può bloccarci, limitarci, impedirci di raggiungere i nostri obiettivi.. stessa cosa vale per ansia, tensione, rabbia, rigidità…
Le emozioni sono una grandissima risorsa, una fonte di energia infinita che purtroppo in molti trascurano. Crediamo di aver bisogno solo di cibo e acqua per nutrire il nostro corpo e per vivere bene, ma, oltre al nutrimento per il corpo, abbiamo bisogno di nutrire la mente che, si dice - o cresce, o muore - .
Le emozioni sono il carburante di ogni comportamento. Tutto dipende da come ci sentiamo e dalle emozioni che proviamo. Ti è mai capitato di sentirti in piena forma, forte, capace, sicuro e di riuscire perfettamente in ciò che desideravi? Ma certamente ti è anche capitata la situazione contraria, ti sei sentito stanco, stressato, giù di tono o sfiduciato e non sei riuscito nell’intento che desideravi. Come mai? Non sei sempre la stessa persona? Certo che si, ma provi emozioni diverse a volte potenzianti, altre depotenzianti.
Cos’è che provoca una emozione? Moltissimi fattori innescano le nostre emozioni come le immagini inconsce depositate nella nostra mente, le associazioni mentali di pensieri, il dialogo interiore, le convinzioni profonde.. tutti elementi che noi possiamo conoscere, e migliorare, cambiando ciò che ci danneggia e ci limita.
Si può imparare a ridurre l’intensità di una emozione sgradevole e  disfunzionale e ad amplificare invece le emozioni positive e funzionali. E’ solo questione di informazioni, conoscenza e naturalmente ci vuole il giusto allenamento. Nei prossimi articoli vi racconterò dei metodi semplici ed efficaci per imparare a fare questo, intanto ti suggerisco se sei interessato, di prenotare una sessione di prova di PNL Emozional Wellness un interessante percorso di allenamento settimanale che lavora sul benessere emozionale.
Adesso facciamo un gioco, prova a pensare ad un momento della tua vita in cui ti sei sentito davvero forte, sicuro, entusiasta e … felice… te lo ricordi? Pensaci intensamente. Mentre riporti alla mente quella esperienza puoi notare di poter riprovare ora quelle sensazione come se esistessero in questo momento. Come mai? Che succede? Succede che la mente funziona per immagini, immagini che immagazziniamo, a cui diamo un significato e associamo una sensazione. Più pensiamo ad un qualcosa più continuiamo a produrre nuove immagini nel nostro cervello. Questo significa che più pensiamo ad un qualcosa e più rafforziamo quel qualcosa a livello mentale.
Alcune teorie sostengono che la rabbia va sfogata per fare in modo di poterla eliminare. Nulla di più falso. Più ci arrabbiamo e più creiamo nel nostro cervello delle neuro-associazioni della rabbia, e quindi rafforziamo sempre di più l’abitudine ad arrabbiarci. La rabbia è negativa quanto ti porta a soffrire, a non essere soddisfatto della tua vita e a fare del male a te e agli altri. Nel percorso formativo PNL Emozional Wellness lavoriamo in maniera profonda sull’eliminazione della rabbia e dell’ansia, le due emozioni più dannose, con esercizi semplici e facili che, una volta imparati, si possono fare ogni giorno in casa.
Imparare ad educare le tue emozioni è un bellissimo viaggio di conoscenza di te stesso e di miglioramento personale. Ti aiuta a diventare più libero e più consapevole, a goderti la vita in modo nuovo e più autentico e a migliorare le tue relazioni sentimentali, lavorative, con i figli.
Nei prossimi articoli parleremo di come iniziare ad osservare le tue emozioni e delle tecniche più innovative ed efficaci di PNL per imparare a gestirle e quindi aumentare la qualità della propria vita.
Intanto visto che il Natale si avvicina, potresti pensare di fare un regalo originale e unico a qualcuno che ami, un regalo accessibile che dura per tutta la vita. Potresti regalare un percorso di sviluppo personale per regalare l’opportunità di sviluppare maggiore forza, serenità, calma e felicità. E’ di certo un regalo unico, originale e profondamente utile al benessere.
La consapevolezza e la gestione delle dinamiche mentali ed emozionali sono spesso la vera chiave di accesso alla felicità. E tutti possiamo accedervi facilmente…basta solo volerlo.